In epoca in cui si gareggia alle olimpiadi del disfattismo, ci si abitua, e spesso si considera un vanto, l’autolesionismo del buttar via il bambino con l’acqua sporca.
Se chi costruisce ferrovie è corrotto tutti gridano a gran voce di smettere di costruire ferrovie, se l’ospedale è disorganizzato tutti ne chiedono la chiusura, senza mai avere dubbi che forse sarebbe meglio lottare contro la corruzione e cercare di far funzionare le strutture piuttosto che privare i cittadini di servizi utili o indispensabili. Continua a leggere→
Nel gergo della malavita il palo è un complice del ladro, quello che rimane fuori dal luogo del saccheggio sia per distrarre gli eventuali passanti sia per avvertire per tempo i rapinatori dell’avvicinarsi della polizia.
Recenti articoli giornalistici che ho letto negli ultimi tempi, e che rappresentano il punto più basso mai raggiunto dal giornalismo nell’ultimo secolo (ricordo che il giornalismo di regime ce la mise tutta per indurre il vomito, eppure è stato indubitabilmente superato) mi fanno ricordare proprio il palo del rapinatore.
Il rapinatore è chiaramente l’iniquo sistema fiscale che ci ritroviamo ad avere, quel sistema che infila nelle nostre tasche le sue mani, sporche di corruzione, per… ripulirle.
Per non generare insurrezioni troppo violente – l’equivalente sociale dell’arrivo della polizia – il palo/giornalista cerca di distrarre la folla con le sue pirotecnie. I temi basati sul pecoreccio bavoso o sul complottismo delirante hanno sicuro successo, ma piacciono sempre anche le storie lagrimevoli e le infuocate polemiche surrettizie, meglio se condite di insulti, luoghi comuni, statistiche e malvagità.
Mentre la folla è accalorata dall’interesse per la carognata quotidiana, furbe mani suggellano decreti di insensate ruberie, camuffate da servizi, appalti, rivalutazioni e altre ipocrisie.
E, come in ogni furto, la gente se ne accorge e duole solo quando i quattrini si sono già involati, preparando le condizioni più favorevoli per il prossimo scoop.
In un’epoca eticamente così barbara, nella quale i costi per la cultura vengono ridicolizzati come sprechi, è molto importante che i professionisti della cultura stiano attenti a non prestare il destro a facili denigrazioni o, ancora peggio, a diventare ispiratori e fomentatori di sanguinose critiche.
Purtroppo il sindacalismo italiano, incapace di rinnovarsi, di dialogare, di contribuire alla creazione di nuovo lavoro, ama molto mostrare i propri flaccidi muscoli facendo l’unica cosa che ha sempre fatto compulsivamente: indire scioperi. Sullo sciopero ho già scritto un post, ma lo sciopero delle orchestre d’opera ha dei risvolti differenti e più subdoli.
Le orchestre degli enti lirici, innanzitutto, scioperano nel momento di massima visibilità, durante le prime o quando gli artisti sono di grande fama. Non c’è un’inaugurazione di stagione lirica negli ultimo 20 anni per la quale non sia stato minacciato uno sciopero; purtroppo tali minacce si sono spesso concretizzate e abbiamo assistito a decine e decine di rappresentazioni d’opera fatte al pianoforte; insomma: più lo spettacolo è importante più abbiamo probabilità di vedere vuoti i leggii. Ma è proprio questa visibilità che si ritorce contro.
Celebre la Traviata alla Scala dove il pianoforte fu suonato da Muti stesso, ma numerosi enti lirici, Bologna e Genova in prima fila, hanno brillato nella quantità di esecuzioni pianistiche.
Tempo fa andai a Napoli per sentire un brillante allestimento al Teatro S. Carlo e ascoltai la recita suonata al pianoforte, per l’ennesimo sciopero dell’orchestra. Mi arrabbiai veramente tantissimo, perché da Udine ero andato fino a Venezia per prendere l’aereo e avevo pagato due notti d’albergo per non perdermi quello spettacolo. E quella sera sentii la voce e la rabbia di turisti che venivano da molto più lontano. Da allora ho deciso che l’aereo per sentire un’opera lo prenderò solo se l’opera è all’estero, e so di non essere il solo ad essere animato da questa filosofia.
Eppure la recita fu un successone, come fu un successone la Traviata scaligera suonata da Muti e furono successoni le opere suonate al pianoforte da meno blasonati – ma bravissimi – musicisti a Genova e a Bologna.
Proprio questo successo è il problema. Il messaggio che viene dato ad ogni sciopero è: l’orchestra non serve a nulla, il pianoforte sostituisce egregiamente, è sempre puntuale in scena, si possono risparmiare cifre ragguardevoli. E poi chi ce lo fa fare di pagare un’orchestra tutto l’anno, quando ci sono tante orchestre free lance molto meno costose e, quando le cose vanno male, si può pure ricorrere al pianoforte, tanto per il grande pubblico è sempre lo stesso?
Se il pubblico sa che l’orchestra sciopera già all’inaugurazione, difficilmente comprerà i biglietti per l’abbonamento (gli unici che diano respiro finanziario agli enti lirici) e gli sponsor faranno a gara per tirarsi indietro. Questo è il motivo per cui non sentirete mai che in Germania, Austria o Inghilterra le orchestre scioperano, anzi, gli scioperi di orchestre sono una specialità unicamente italiana, che non ha riscontri altrove.
Nei paesi evoluti, gli orchestrali difendono il loro posto di lavoro suonando, e le rimostranze sindacali le esternano nelle mille maniere che vengono in mente a chi non si sia fossilizzato sul chiodo fisso del nostro sindacalismo paleozoico, convinto che nulla esiste al di fuori dello sciopero.
I cittadini non sanno come si chiama il sovraintendente o il direttore artistico, non hanno idea di quali sono le beghe – troppo spesso puntigliose e stupide – che hanno portato ad incrociare le braccia, ma sanno benissimo che le orchestre italiane tirano buche, sanno che spesso non suonano, che non c’è da fidarsi, che in Italia il turismo culturale è una inimmaginabile follia. Io non ricordo – anzi, non l’ho mai saputo – perché l’orchestra partenopea quella sera fece sciopero né chi erano gli amministratori pro tempore del teatro. Ricordo solo la rabbia e la delusione. Ricordo di avere riflettuto come l’ascoltatore è quello che non conta niente, quello a cui nessuno pensa, quello a cui si pretende che paghi salatissimi biglietti, che faccia viaggi e sacrifici, ma a lui non si garantisce assolutamente nulla, visto che l’eventuale rimborso di un biglietto non copre né le spese di viaggio né – e questo è molto peggio – la delusione.
Troppi musicisti considerano il pubblico come un diritto, come una vacca da mungere, come una massa di inferiori a cui esigere, dall’alto della propria altezzosità, apprezzamento e ammirazione. Al pubblico ci deve pensare la politica, il sovrintendente, il direttore artistico, i musicisti pensano alle tariffe degli straordinari o all’indennità di trasferta. Vengono sfiorati da qualche riflessione solo quando la catastrofe economica è già avvenuta. Solo allora capiscono che l’ascoltatore è l’unico motivo del loro lavoro, che è una conquista mai certa e mai scontata, che deve essere sia amato che capito, e che per farlo bisogna mettersi nei suoi panni (è rarissimo, per esempio, vedere musicisti di professione seduti come pubblico ad ascoltare un concerto).
Queste cose andrebbero capite prima che chiuda l’ultimo teatro e venga licenziata l’ultima orchestra. Dopo è troppo tardi, ma quel “dopo” … è vicino.
Ecco, invece, un esempio positivo, che ci viene dal Teatro Regio di Torino, che indica che per farsi notare i musicisti non debbono fare altro che fare i musicisti, altro che scioperi!
Fino a non moltissimo tempo addietro fioriva un filone letterario che si chiamava agiografico, e che consisteva nel descrivere le vite dei santi. Tali descrizioni erano piene di iperboli, di invenzioni, di esagerazioni, e non avevano nulla a che fare con la storia vera. In questo tipo di letteratura i buoni (=i santi) erano eroici, perfettissimi, infaticabili, mentre i malvagi (=diavoli, empi ed eretici) erano la quintessenza dei ogni perfidia.
Poche cose sono così rassicuranti che vedere il bene tutto da una parte e il male tutto dall’altra. Illuminismo, scientismo e laicismo hanno raso al suolo questa fiorente letteratura ed anche tutte le sicurezze che essa dava.
Eppure, sotto mentita veste, la letteratura agiografica non è affatto scomparsa, anzi sta facendo più audience di prima.
Pur avendo abolito da 20 anni la televisione dalla mia vita, mi è bastato vedere un telegiornale e ho scoperto che questa è la forma in cui il genere si è trasformato. Nel telegiornale, il padrone di turno della rete è il santo e i suoi oppositori sono i demoni.
E’ stupefacente vedere quanto sia tranquillizzante la totale divisione tra male e bene…
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